Pastorella ricorda; e a lo straniero
Mostra il sasso dal rigido sentiero,
E dice: è il sasso de la bella Rosa.
Ohi fosti? vergin bella ed amorosa,
O pia suora, o regal donna d'impero?
Solo il tuo nome avanza: alto mistero
Tien la tua storia in cieca notte ascosa.
Perché da tè si noma l'augellino
Che, se canta, da un suon che par lamento,
E nasce e vive e muore a te vicino?
E duri ne l'eterno monumento
De' sassi alpestri, a cui dintorno il pino
Maestoso e sonoro ondeggia al vento?
Per frugare, interrogare, indagare ch' io abbia fatto, non ho potuto avere notizia alcuna di questa bella Rosa, e' ha legato il suo nome al pittoresco gruppo di macigni, ombreggiato dai pini. Chi, muovendo dalle rovine dell' Abbadia, prende il viottolo a manca, incontra questa vaga opera della natura sovrastante a quel tratto della via pedemontana che va da Uliveto a Lugnano. Credo (com' ho detto altrove) che il villaggio di S. Michele si distendesse, almeno in gran parte, dall'Abbadia insino a quel sasso: ma neppure di ciò son certissimo, sebbene i molti ruderi eh' oggi stesso si vedono sul dorso quasi pianeggiante, me ne diano ragionevole indizio.
Gli storici e cronisti pisani memorarono le nostre donne valorose. Serbarono il nome di Marzia Invitta: fecero onorata menzione della sedicenne giovinetta di Fauglia, che ne' giorni dell'assedio combattè valorosa ed infaticabile contro le milizie fiorentine: levarono a cielo la forte e coraggiosa, Paola da Buti, che il compianto Annidale Marianini (di benedetta memoria) voleva eternare con la pittura; e ne aveva dato un saggio nel grazioso sipario di Buti. Ed anche della stranissima resistenza delle donne di Marti contro le armi fiorentine (anno 1364), scrissero con viva compiacenza. L' ho detta stranissima, perché non mi avvenne mai di legger nulla di simile nelle storie degli assalimenti e delle difese de' luoghi fortificati. I Fiorentini, con gran numero di gente, disegnarono di sforzare il castello di Marti.
Ma i Martigiani con bravura mirabile si difesero: e (siccome raccontano gli annali pisani) le donne ancora in quel. giorno si diportarono da valentissimi soldati ; e, con un' arme non mai più udita, forzarono i nemici a dipartirsi, con molto lor danno e disonore. Trovavansi allora in Marti un numero infinito di bagni di api (cosi li dimandiamo noi altri di Toscana); e non avendo le donne altr' arme, se gli mettevano in capo, serrando i buchi loro, e dalle mura riversavangli sopra i nemici : e questi animali entrando per le visiere dei cavalieri; e pungendo i volti e gli occhi dei soldati, arrecarono loro tanta molestia (oltre alle percosse dei sassi, e delle ferite che ricevevano dai balestrieri pisani), che, spaventati, si ritrassero indietro, con rimanervi molti di lor morti e feriti.
Così il Roncioni.
Ma di questa bella Rosa non una parola; ne nelle cronache, ne nelle leggende. Per la mia parte sarei gratissimo, oggi e sempre, a chi me ne desse qualche notizia particolare.
Altronde la coscienza popolare che, immutata ne' secoli, ha dato e conservato il suo nome a quel sasso, deve aver pure avuto qualche ragionevol motivo di farne perpetua la memoria. Que' giorni di rovina, di sterminio e di distruzione devono aver visto fatti orribilissimi; de' quali ogni special contingenza è perita, perché restaron sepolti, con gli autori e con le vittime, negl' incendii e nelle stragi delle maledette guerre civili.
Ma negli abitanti della montagna ne restò qualche indizio ; e di qui forse queste a noi inesplicabili denominazioni di luoghi, create e conservate dal popolo; die serba e custodisce i nomi, anche quand'è finita o dispersa la memoria delle cose e delle persone. Del resto il villaggio di San Michele sappiamo essere stato popoloso e fiorente. Sulla piccola spianata, ch' oggi dicesi il praticello, era una bella fontana; e le acque venivano. dalla sorgente di Lupeta, al di sotto della Dolorosa, mediante
un condotto; del quale i vecchi montanari mi assicurano di aver visto gli avanzi lungo il viottolo, die dalla sorgente (oggi scarsissima) conduce al praticello dell' Abbadia. Ed anche ne' lontanissimi tempi in quel villaggio aveva residenza un notaio, per il servigio del pubblico: e rogiti di molto antica data ha letto nel Muratori l'ottimo e non mai dimenticabile amico mio Prof. Pagano Paganini; de' quali contratti la formula è: „ Actum in Monte Pisano etc. „ e ciò vuoi dire che ci era popolazione molta ed agiata.
Chi potrebbe oggi risapere gli episodi!, molti e strazianti, dei quali furou testimoni que' sassi, arsi, insanguinati e ferocemente dispersi? E chi sa che di uno di questi la voce popolare non abbia affidato la memoria a quel gruppo di macigni, designandolo con vocaboli pietosi e gentili? Nei nostri luoghi è perita la ricordanza di ben molti fatti ed uomini memorabili, anche se affidata alla storia. Chi ricorda oggi in Calcinala quel Romano, che pure fu arcivescovo illustre di Ravenna nel secolo VIII ? Chi l' incontro e il colloquio di papa Innocenze II cool' imperatore Lotario nelle vicinanze di Calcinala? Chi sa o rammenta che il pontefice Urbano VI non fa altri che Bartolommeo da Perigliano (festeggiatissimo in tutto il nostro contado, quando nel 1388 albergò per breve era alla Pieve di Vico); e die la celebre famiglia degli Appiani, Signori di Piombino, si originò da Vanni di Benvenuto d'Appiano in quel di Ponsacco; sebbene alcuni abbian confuso la nostra parrocchia d'Appiano con S. Appiano in Monte Aureo presso Firenze?
Un vecchio montanaro, morto da molti anni, rispondendo a me' giovinetto che l'interrogavo sul Sasso della bella Rosa, mi narrava di certa paurosa visione da lui avuta nel passare di là nel buio d'una notte d'estate. — Una bellissima giovine vestita di bianco, splendida come fosse incoronata di luce, sedeva sola e pensosa sul pili alto macigno. Quaud' egli rasentò il gruppo de' sassi, la giovine si levò e discese lentamente, muovendo inverso di lui. Impaurito si rinselvò, standosi immobile e raccomandandosi a Dio, pur tenendo gli occhi sulla fantasima. La quale, andando agile e lieve come non toccasse la terra, tenne il viottolo; passò a breve distanza da lui gettando dalla bocca faville accese, e via come un dardo sino alle rovine dell' Abbadia: venuta alle quali, si dileguò. — È la leggenda celtica delle donne bianche, chi sa come e quando portata su' monti pisani. Non dimentichi a questo punto il lettore die il monte pisano separava la Gallia togata dalle provincie etrusche soggette ai Romani, e che avanzi di vie consolari si trovano or qua or là ne' varchi, che di quel tempo dovettero essere i più frequentati. Facile quindi alle genti d'origine celtica di comunicare con gli antichissimi abitatori del monte, d'origine ligure, greca, etrusca e latina: e basti di ciò.
Io di quel tempo rideva alle novelle di quel buon vecchio, ch'avea visto la strana apparizione, quand'era ancor giovanissimo, cioè ai tempi della prima discesa del Buonaparte in Italia. Oggi non ne rido più. Queste allucinazioni ci sono: si vede, si sente: quasi si giurerebbe di aver toccato i paurosi fantasmi, che per qualche momento v' han fatto sudar freddo per la paura. E dico spiattellatamente paura; perché innanzi a siffatte visioni, che paion cose vive e vere, non v' ha forza ne coraggio die valgano. E la fantasia malata le figlia e le incarna con terribile apparenza di verità, andie ali' infuori d'ogni occasione ('sterna die le faccia spiegabili. Non è necessario aver letto l' erudito libretto De viribus imaginationis di Tommaso Fieno, nè il trattato De occultis naturae miraculis di Levino Lemnio, nè i Mirabili di Trelliano Flegone, ne il Cardano e il Dal Rio per esserne convinti. In quanto a me dico ch'è cosi, perché so che cosi è veramente: e prego i fortissimi spregiudicati di non sorridere. Se per loro mala ventura avessero mai a far prova di quel eh' è di tremendo l'allucinazione, quando sappiamo (o crediamo) di essere nella pienezza e nella libertà delle potenze, dei sentimenti e del vigor corporale, li assicurò che si sentirebbero cascare gli aloni innanzi al prepotere dell'umana infermità, che in queste forme morbose si manifesta nel suo modo più crudele e più fiero.
Ho voluto vedere nella splendenza della loro bellezza artistica le rovine dell' Abbadia, la Verruca ed il Sasso della bella Rosa in una notte estiva, che non mi sarà dimenticabile mai. Non so resistere alla tentazione di narrare quella mia gita notturna; e si capisce il perché.
Nell'artista d'ogni ragione è come una naturale necessità di partecipare agli altri i suoi sentimenti. Se le grandi voci della natura che lo chiamano, l'ispirano, lo scuotono e qualche volta lo trasportano fuori della cerchia della terrestrità, finissero nella immaginazione e nel cuore di lui, sarebbe come se queste grandi voci non l'avessero percosso giammai. Ripeterle, comunicarle, farle sentire dappertutto ed a tutti: ecco la vocazione dell'artista ed il mandato che gli è imposto dalla legge dell'arte, che pure è legge della natura; essendo l'arte nepote di Dio, come la natura n' è figlia. E tutta l'opera dell'artista che modella, disegna, dipinge, architetta, combina ed imprigiona nei segni grafici le alate note musicali, non 6 altro che uno sforzo poderoso per ripercuotere al di fuori e fare comunicabile altrui l'opera interna della fantasia e del sentimento, disciplinata dall' intelletto. E ciò incontra anche agli artisti della parola, che pure han tra mano una materia più malagevole di tutte le altre ad essere convertita in elemento di bello. Così almeno si credeva una volta; quando in Virgilio, in Dante, nel Petrarca, Bell'Ariosto e nel Leopardi (e d' altri non parlo) si cercava innanzi tutto di scoprire il segreto della parola scultoria, pittoresca e musicale, regolata dalla sapienza della geometria.
Ma io non voleva già dir questo, ne profondarmi negli abissi della scienza del bello. M'accorgo della digressione e torno all'argomento vero: il quale è die il commento a questo sonetto mi parrebbe imperfetto e manchevole, se non invitassi il lettore a, contemplar meco in ispirito il sublime spettacolo.
Nel plenilunio del luglio del. 1887, inverso la mezzanotte, mossi lentamente dalle Mandrie, accompagnato dal mio fèdelissimo Reno. Oltrepassate di poco le rovine dell' Abbadia, trattenni il passo e guardai.
La notte alta, quieta, profonda: la luna chiara, lucentissima al sommo dell' arco celeste ; dietro a me il castello di Montemagno biancheggiante ai raggi lunari, come la vecchia città etrusca già consacrata alla regina delle notti: a destra la Verruca, gigante solitario, silenzioso, dritto nell' ombra, come fosse il tumulo d'nn Titano: a sinistra lassù lontano sovrastante al Lombardone la cima della Dolorosa, nera, cupa, funerea, vera immagine della Niobe pisana impietrita dal dolore; e poi giù al mio lato le rovine del tempio di San Michele, squallide, informi, addossate a casaccio sugli avanzi delle mura crollate : innanzi a me il sasso della bella Rosa, che si levava su in alto inghirlandato dalla bella corona di pini robusti, dolcemente colorato. — Tutt' intorno una quiete pròfonda; interrotta ad ora ad ora dagli strani e fugaci rumori, che nelle ore della notte s'odono di frequente or qua or là nei monti e nei boschi.
E mi parve di essere come tutto solo sulla terra. Mi sentii come invaso e vinto dal malinconico nume del Dio Viduo Ed ecco a risvegliarmisi a grado a grado nella memoria l'infanzia, la giovinezza, la virilità, così piene di ricordanze. Rivedevo ad uno ad uno tutti i miei poveri "morti: rivedevo gli amici, le amiche buone, leggiadre, fiorenti: e sentivo nel sacrario del cuore la tua voce pietosa, o Padre celeste, che m' incuorava Iena a durare saldo e immutabile nella mia fede in tè (in tè solo!), nelle ultime prove della mia terrestre milizia.
M' irridano pure i forti ed i sapienti del secolo ! Confesso che m'inginocchiai intenerito sulle rovine del tempio; e piansi lungamente come un fanciullo; e pregai come devono aver pregato i penitenti e gli ascèti nei secoli grandi della fede operativa. La storia, la leggenda, l'arte, tutto avevo dimenticato; perché tutto tace entro noi, quando Dio ci parla nella solitudine.
Non ho più avuto la virtù di andare incontro alle ineffabili, ma pur sempre faticose commozioni di quella notte, ne mi sento il coraggio d'invitare altri a farne esperienza, massime se tutto e tutti avessero, come me, perduto in eterno. Ma la ricordo e la ricorderò sempre, sempre; ed il bennato lettore mi perdoni se, nulla avendo di meglio da raccontare, l'ho in trattenuto con questa narrazione (niente eroica) delle fanciullaggini del mio cuore: mettendola (e m'è sembrato di poterlo fare onestamente) nel commento a questo sonetto.
Intorno all'augellino di cui parlo nella prima terzina, questo solo ho potuto sapere. È piccolo, snello, leggiadro: canta il suo verso pieno di dolce malinconia. Ne avanzano poesie famiglinole. È raro che si dilunghi dalle appartenenze del sasso; nelle quali nidifica a primavera e permane in tutte le stagioni dell' anno. Una sola volta n' ho veduto vicin delle Mandrie, e molto fugacemente, il grazioso esemplare. Mi parve una varietà della specie del REGULUS cristatus (Fiorancino). Lo chiamano l' uccellino della bella Rosa.
N. F. Pelosini Ricordi tradizioni e leggende dei monti pisani Forni editore pag. 103-111